Valerio Dehò
Direttore Kunst Merano Arte
Aprile 2015
Gli occhi e la fotografia
Paesaggi d’aria, di pietra e di terra Per un toscano confrontarsi con il paesaggio è inevitabile, impossibile non cercare un confronto, un rispecchiamento con un ambiente che è humus, linfa. Lo stesso vale per Giovanni Fanetti che nella magia del suo bianco e nero non fa rimpiangere Giacomelli, perché la sua interpretazione di un genere così assoluto è puntuale, rigorosa, sempre attenta non solo ai valori formali, ma anche a quelli sostanziali. Del resto il paesaggio toscano nasce dall’incontro tra l’uomo e la natura, è un paesaggio “educato” non ha nulla dell’arcaismo e del selvatico di una terra come la Sardegna, per esempio. È per questo che emerge l’uomo che ne è il presupposto, anche se non è presente, come artefice di tanta perfezione. Lo stesso progetto di Fanetti sulle nuvole sembra una di quelle sane utopie di cui si è nutrita l’arte da sempre. Riuscire ad afferrare, a catturare, seppur per poco, l’evanescenza e la transitorietà di queste leggere abitanti del cielo, può sembrare un’impresa impossibile. Eppure numerosi artisti hanno cercato proprio attraverso l’arte e l’osservazione di cogliere il segreto delle nuvole, la loro anima fatta di acqua, di cielo e di stupore. Il fotografo non ha dovuto viaggiare per trovare quello che voleva, il paesaggio toscano era già lì a disposizione per trovare l’intersezione e il punto esatto in cui le nuvole diventano parte del paesaggio. Ma alla fine di questa lunga ricerca, la sua scoperta consiste proprio nel far vedere che l’aspetto esotico della geografia va di pari passo con l’osservazione di ciò che abbiamo sotto gli occhi. In fondo è vero che ci sono delle latitudini che imprimono alle nuvole visioni diverse, delle singolarità affascinanti, ma è anche vero che magari stando fermi e alzando gli occhi al cielo, si possono fare lo stesso degli incontri incredibili e straordinari. Quante nuvole possiamo guardare da dove viviamo abitualmente, dalla nostra finestra di casa? In fondo osservarle è una pratica zen che ci costringe alla meditazione, a considerare l’assenza di tempo. Fanetti ha realizzato dei paesaggi aerei di forte sapore metafisico, il tempo è quasi assente proprio perché lo spazio sembra rinunciare ad essere un punto di riferimento certo. John Ruskin scrisse che era difficilissimo dipingere le nuvole, in genere gli artisti o le rappresentavano troppo dure, quasi fossero dei sassi, oppure le facevano diventare leggere come sottili pennellate, come fossero degli sbuffi di nebbia. John Constable, qualche tempo prima del connazionale Ruskin, aveva dedicato interminabili studi e disegni proprio a questi aerei elementi della natura. Giovanni Fanetti attraverso la fotografia è riuscito a ricercare la magia e il mistero di questi semplicissimi elementi della natura che l’uomo non potrà mai addomesticare, rendendole inutili. Ha dato durata e luminosità agli elementi più cangianti dell’universo, i più semplici e i più fragili. Nello stesso tempo ha cercato la lezione leonardesca di cogliere le figure, i volti, nelle associazioni spontanee degli elementi naturali. Il fotografo aggiunge una certa sagacia, una sottile ironia in modo tale che comunque il gioco del “come se” assume i contorni di un indovinello infantile, in cui il piacere della scoperta si unisce al piacere ludico.
Un simile atteggiamento, che è caratteristico di Fanetti, lo si scopre anche nelle potenti immagini che richiamano alla memoria delle vere e proprie opere di Land art al naturale, raccolte nell’arcaica Sardegna. Le “grida di pietra” sono un elogio delle forme naturali, la ricerca di regolarità nell’apparente caos delle forme, il ripristino di un paesaggio spoglio di uomini e che comunque ha in sé mille riferimenti antropomorfi. Come nel gioco delle nuvole, anche in questo caso l’informe tende ad un ordine, attraverso lo splendido bianco e nero le rocce e le loro ombre assumono i canoni di una sinfonia di pietra. Questo ciclo è importante perché riflette la capacità di indagine del fotografo, la sua ricerca continua di una medietà tra lo sguardo e l’idea. Resta fortemente figurativo, l’astrazione minimalista non gli appartiene, semmai una sorta di astrazione organica, come anche nel caso delle “Bolle di sapone”. Anche qui si parte dal naturale, anche se questo spesso deve essere aiutato, in un certo modo va incoraggiato ad essere tale. Il suo istinto verso una fotografia fortemente connotata da elementi dinamici, biologici, comunque manifesta una forte spinta di energia e vitalità. Per lui fotografare è un gesto continuato che non si può risolvere nell’istante, ma deve dare sempre conto di una storia, di uno sviluppo, di un confronto tra la genetica della pittura e la sua adattabilità agli spazi fisici e mentali che comunque ne caratterizzano le direzioni di spostamento. Fanetti ha saputo anche resistere alla fissità del modulo, alla struttura prefissata che in una concezione costruttiva, diventa il vero oggetto estetico. La leggerezza delle bolle di sapone assume carattere e forza. La biologia unisce territori distanti. La perfezione sta proprio nel fatto che queste unità viventi possano agire l’una con l’altra attraverso l’amore o l’odio. Di questo la fotografia è partecipe non in senso illustrativo, che sarebbe esiziale, ma in chiave diretta come principio generativo e in quanto sorgente di vita e movimento. Ora, questo legame o questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna, e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice, per usare la terminologia di Leibnitz, abbia dei rapporti che esprimono tutte le altre e che, di conseguenza, sia un perpetuo specchio vivente dell’universo. La visione di Giovanni Fanetti è volutamente umanistica perché parte da considerazioni semplici e antiche. La vita e il movimento che proviene dalle sue fotografie, amplifica il flusso continuo e coerente delle forme, la loro danza misteriosa sulla superficie pittorica, la loro ricerca di un’impossibile stabilizzazione o riposo. L’arte porta il senso al limite, tra la fisica e la metafisica il passo è breve.
Valerio Dehò
Director Kunst Merano Arte
April 2015
The eyes and photography
Landscapes air, stone and earth It is inevitable for a tuscan to confront himself with the landscape, impossible not to look for a comparison, a mirroring with an environment that is humus, sap. The same goes for John Fanetti that the magic of his black and white does not regret Giacomelli, because his interpretation of a genre so absolute is timely, rigorous, always careful not only to the formal values, but also to those substantive. Moreover, the Tuscan landscape is born from the encounter between man and nature, its an ”educated” landscape that has nothing of archaism and wild of a land like Sardinia, for example. This is why the man who emerges is a prerequisite, although not present, as the author of such perfection. The same project by Fanetti on the clouds seems one of those healthy utopias of which has nourished art forever. Be able to grasp, to capture, albeit briefly, the evanescence and transience of those inhabitants of heaven, may seem an impossible task. Yet many artists have tried just through art and observation to grasp the secret of the clouds, their soul made of water, sky and wonder. The photographer did not have to travel to find what he wanted, the Tuscan landscape was already there on hand to find the intersection and the exact point where the clouds become part of the landscape. But at the end of this long search, his discovery is precisely to show that the exotic look of geography goes along with the observation of what we can see. In reality it is true that there are latitudes that imprint the clouds different visions, fascinating singularities, but it is also true that maybe standing still and looking up to heaven, you can do the same incredible and extraordinary meetings. How many clouds can we look at from where we normally live, from our house window? Basically to observe is a Zen practice that forces us to meditate, to consider the absence of time. Fanetti created landscapes planes with a strong metaphysical flavor, time is almost absent because space seems to give up being a point of reference. John Ruskin wrote that it was difficult to paint the clouds, usually artists or they portraid them too harsh, as if they were stones, or made them become read as subtle brushstrokes, as if they were puffs of fog. John Constable, sometime before compatriot Ruskin, had devoted endless studies and designs to these aerial elements of nature. John Fanetti through photography was able to search for the magic and mystery of these simple elements of nature that man can never tame, making them useless. Gave life and brightness to the most iridescent elements of the universe, the simplest and the most fragile. At the same time tried to grasp the lesson of Leonardo’s figures, the faces, in the spontaneous associations of the natural elements. Photographer adds a certain shrewdness, a subtle irony in such a way that the game of “as if” takes the shape of a child’s riddle, where the pleasure of discovery joins the pleasure of play. Such an attitude, which is characteristic of Fanetti, it turns out even in powerful images reminiscent of the real works of Land art, gathered in what used to be ancient Sardinia. The “Voci di pietra” (Voices of Stone) are an eulogy of natural forms, the search for regularities in the apparent chaos of forms, the restoration of a barren landscape of men and that still has in it a thousand anthropomorphic references. As in the game of the clouds, in this case the shapeless tends to give an order, through the beautiful black and white rocks and their shadows take on the rules of a symphony of stone. This cycle is important because it reflects the ability of investigation of the photographer, his constant search for a continuity between the eye and the mind. Remains highly figurative, minimalist abstraction does not belong to him, if anything, a kind of organic abstraction, as in the case of “Bolle di sapone” (Soap Bubbles). Even here we start from the natural, although this often has to be helped, in a certain way to be encouraged to be such. His instinct towards a photography strongly characterized by dynamic elements, biological, nonetheless shows a strong boost of energy and vitality. For him, photography is a gesture continued that you cannot solve in an instant, but must always give an account of a story, of a development, a comparison between the genetics of the painting and its adaptability to physical and mental spaces that still characterizes moving directions. Fanetti has also managed to resist the fixity of form, structure fixed that in a constructive conception, becomes the true aesthetic object. The lightness of soap bubbles takes character and strength. Biology unites distant territories. Perfection lies in the fact that these living units can act with each other through love or hate. This photography is not a participant in an illustrative sense, that would be fatal, but in a direct as generative principle and as a source of life and movement. Now this link or this adaptation of all created things to each, and each to all the others, means that each simple substance, to use the terminology of Leibnitz, has relations which express all the others and that, consequently , is a perpetual living mirror of the universe. The vision of John Fanetti is purposely humanistic because it starts from simple considerations and ancient. The life and movement that comes from his photographs, amplifies the continuous flow and consistent shapes, their mysterious dance on the surface of the painting, their search for an impossible stabilization or rest. Art brings sense to the limit, between physics and metaphysics is a short step.