Critiche

Renzo Margonari
“Occhiovolante”, la cronaca di Mantova
17 marzo 2000

Fotografare L’Aria

Paesaggi 1990-97 ed Erano Bolle di Sapone 1994-1998 sono due gruppi di eccezionali immagini fotografiche che il fiorentino Giovanni Fanetti espone al Museo d’Arte Moderna di Gazoldo dal 5 marzo al 2 aprile. Stampe in piccolo e anche piccolissimo formato, diversamente dal gigantismo di moda a dimostrare un’intensità concentrata che ben raramente si osserva in quest’arte più incline a fermare l’attimo che prestarsi alla contemplazione, inventare pregevoli strutture formali e formulare speculazioni estetiche. Naturalmente pure la fotografia ha i suoi generi e sottogeneri, e persino scuole di pensiero. Ma circa l’uso dello specifico linguaggio, l’opera di Fanetti mi sembra assolutamente eccezionale, non fosse che per la finezza con cui stampa valori impalpabili del chiaroscuro dove, a detta dei tecnici puristi e competenti, si dimostra la vera capacità poetica dell’artista fotografo.
Le immagini di Fanetti conducono subito al nocciolo della questione dimostrando, con la sua alta tensione poetica, che la fotografia è un linguaggio artistico indipendente e applica una propria metodologia di ricerca, svolge i propri temi con piena capacità a produrre novità estetiche nel suo specifico, talvolta sorprendenti, e ha peculiarità immaginative ben distinte da quelle delle altre espressioni figurative, e pure dalla cinematografia e dall’immaginativo elettronico.
Infatti, le fotografie di Fanetti hanno la stessa originalità e qualità inventiva di quanto si potrebbe attribuire a un eccellente pittore, direi pure a un maestro. In questo caso però, nulla sarebbe più fuori luogo che evocare le argomentazioni dello storico incontro-scontro tra fotografie e pittura. Sappiamo quanto la fotografia, sul nascere, abbia utilizzato la pittura e stiamo tuttora vivendo, in questi ultimi anni, quanto la pittura utilizzi la fotografia. Anzi, in alcune forme della moderna espressione figurativa è difficile scindere le due arti così fuse tra loro da originare un sincretico terzo linguaggio che non le vede più contrastanti ma pienamente integrate: questi anni sono caratterizzati, infatti, dalla fine delle suddivisioni in categorie espressive. Peraltro le stampe fotografiche hanno ormai una definita collocazione come forma d’espressione autonoma; godono di un mercato collezionistico le cui cifre hanno da tempo raggiunto le centinaia di milioni per le opere d’epoca stampate dall’autore (le cosiddette “vintage”), e persino certi maestri che sono stati contemporaneamente famosi anche come pittori, quali Man Ray, vengono trattati diversificando le due attività.

Nessuno più pensa, come si conveniva mezzo secolo fa, che la fotografia fosse un’arte minore (non concesso che possa esistere simile categoria).
Giovanni Fanetti non confonde lo specifico con altri linguaggi, ma i processi della sua arte si affermano percorrendo coordinate differenti e con un diverso modo d’incontrare la problematica figurativa rispetto a quanto fanno solitamente altri grandi fotografi. Malgrado le visioni di nuvole sulle colline toscane possano essere intese anche come un raffinato e poetico reportage, credo lo si dovrebbe considerare un artista astratto, vista l’attenzione spasmodica riservata alla forma, alla proporzione, al gusto per il taglio compositivo delle immagini. Per alcune stampe viene quasi da dubitare che il suo occhio abbia potuto cogliere alcune immagini dalla natura e non si tratti, invece, di abili contraffazioni: la facoltà straordinaria di trovare il punto chiaroscurale più giusto per l’immagine in fase di stampa aggiunge la strana magia che permea tutta la sua opera. Una visione incantata del fenomeno naturale al quale pure il nostro occhio ci avverte che dobbiamo assolutamente credere, poiché l’artista fiorentino non rinuncia alla prerogativa di “documentare”. Infatti – non bisogna mai stancarsi di affermarlo – si fotografa con lo sguardo, non con la fotocamera e l’occhio è quello dell’anima non quello fisico. Perciò queste immagini documentano un momento dello spirito e non un evento. L’occasione è semmai solo un pretesto. Fanetti è un poeta impalpabile, dell’aereo e dell’effimero.
E cosa può essere più effimero di una bolla di sapone? Ma Fanetti rende il lieve involucro di sapone e d’aria duro come cristallo, ne rileva le strutture che sembrano destinate all’eterna bellezza della pura forma concepita da un grande architetto, le linee sublimi. La foto è dunque capace, come avviene in atre arti, di trascendere la corporeità, trasformare in visione la percezione materiale.
Guardando le fotografie di bolle l’intenditore d’arte ricorda il segno incisivo e sensuale di Hans Bellmer, la netta e radicale percezione spaziale di Lucio Fontana, come i suoi paesaggi fanno ricordare Alberto Burri. Ma proprio questo è il punto: non si deve e non è giusto guardare una fotografia pensando alla pittura. La tecnica fotografica non ha da spartire con quella pittorica soprattutto perché lo strumento è diverso e chiunque può dedurre, in quanto la tecnica è parte integrante della scelta poetica, anzi ne costituisce una componente, che non dovrebbe esser concesso giudicare la fotografia utilizzando il metro estetico impiegato per la pittura. E’ tempo dunque che si affermi anche una critica fotografica specializzata e autonoma, capace di definire i propri valori estetici e costruire un appropriato a autonomo sistema valutativo e tenga conto, soprattutto, che se lo strumento è diverso, diversa è l’intenzione.

Non tutti i critici adottano simile criterio e, peggio, molti ignorano i processi tecnici che sono decisivi nel risultato poetico.
Ciò raccomanda pure Luciano Ricci nella bella presentazione in cui definisce capolavori – ed emotivamente concordo – le fotografie di Giovanni Fanetti, un cacciatore che per anni ha inseguito e catturato nuvole, bolle di sapone, con una tecnica ortodossa, senza alcun artificio se non quello proprio al suo mezzo, ha fotografato magie e miraggi, ma soprattutto ha inventato atmosfere e architetture fatte di luce e d’aria, dimostrando che l’immagine fotografica, quand’è poetica, è “puramente soggettiva.

Renzo Margonari
“Occhiovolante”, la cronaca di Mantova
17 marzo 2000

PHOTOGRAPHING AIR

“Landscapes” 1990-97 and “They Were Bubbles” 1994-1998 are two sets of exceptional photographs which Giovanni Fanetti, the Florentine photographer, will exhibit at the Museo d’Arte Moderna di Gazoldo from the 5th March to the 2nd April. These photos have been printed in small and extra small sizes, unlike the extra-large sizes which are popular at the moment. The reason for this is to demonstrate a concentrated intensity which is unusual for this art form which tends to capture a moment rather than lend itself to contemplation, and to invent formal, exquisite structures and express aesthetic speculation. Of course, even photography has its genre and sub-genre , even its own school of thought. But regarding the use of specific language, the work of Fanetti seems to me to be absolutely exceptional apart from the fact that the subtlety of light and dark contrast is imperceptible, according to the purist experts, and he demonstrates the true poetic skill of the artist photographer.

The photos of Fanetti go immediately to the heart of the matter by showing that photography is an independent artistic language and applies its own research methodology, it develops its own themes being fully capable of producing aesthetic innovation, sometimes surprisingly, and has immaginative features which are very different from other figurative expressions and even from cinematic and electronic images.

In fact, Fanetti’s photographs have the same originality and inventive quality that can be attributed to an illustrious painter, I would even go so far as to say maestro. However, in this case nothing would be more out of place than to bring up the historical dispute between photography and painting. We know that photography, when it began, made use of painting and even today we can still see how much painting makes us of photography. Actually, in some forms of modern figurative paintings it is difficult to separate the two art forms which are so bound together, in order to form a third language which does not consider them as conflicting with one another but rather it sees them as being completely integrated. In recent years there has been an end to the dividing up of expressive categories. Moreover, photographic prints have now a definite place as a form of autonomous expression. There are collectors who pay millions of euro for original vintage photos and even the works of some masters who were famous as both photographers and painters, such as Man Ray, are handled by separating the two activities.

Today, unlike half a century ago, no-one considers photography to be a minor art form. Giovanni Fanetti does not confuse the specific with other languages, but the method of his art establishes itself by covering various coordinates and he has a way of facing the figurative problem which is different to that usually used by other great photographers.
Even though the picture of clouds in the sky of the Tuscan hills can be also taken for a refined and poetic feature, I believe he should be considered an abstract artist due to the spasmodic attention given to the form, the proportion and the composition of the picture.

Some of his prints make one wonder whether his eye has been able to take in some pictures of nature, they almost appear to be clever fakes. The extraordinary ability he has of finding the point of light and dark contrast during the printing of the photo, which is exactly right for that picture, gives a certain touch of magic which permeates all his works. It is an enchanting vision of a natural phenomenon which even our eyes tell us we must believe, because this Florentine artist does not forgo his prerogative to provide evidence. In fact, and one must never tire of affirming this, we take photographs with our eyes not with the camera and the eye is the eye of our soul not the literal eye. For this reason these picture provide evidence of a moment of the spirit and not an event. The occasion is, if anything, only an excuse.

Fanetti is an imperceptible poet of the air and the ephemeral. And what can be more ephemeral than a bubble? But Fanetti makes the bubble made of soap become hard as crystal. He makes the shapes appear to be of everlasting beauty. It is as if they have been designed by a great architect, their shape is sublime. The photo is therefore able, as in other art forms, to transcend substance and transform the material perception into a vision.

An art expert, on looking at the photographs of the bubbles, will be reminded of the sharp and sensual mark of Hans Bellmer, the clean cut and radical spatial perception of Lucio Fontana, just as his landscapes remind us of Alberto Burri. And this is exactly the point – one cannot and must not look at a photograph and think of painting. The photographic technique has nothing to do with painting, most of all because the means of producing it is different and therefore anyone will understand that it is impossible to judge photography using the same aesthetic measuring tool that is used for painting because the technique is an integral part of the poetic choice. It is therefore high time that a specialist and autonomous photographic critic be approved, one who is able to define his own aesthetic values and construct an appropriate and independent evaluative system and who will above all take into account that if the device is different then the intention is different.

Not all critics adopt the same criterion and, what is worse, many of them ignore the technical procedures which are crucial to the poetic result.
This is what Luciano Ricci recommends in his beautiful presentation where the photographs of Giovanni Fanetti are called masterpieces, and warmly agrees. Giovanni Fanetti is described as a hunter, searching for and capturing clouds and bubbles using an orthodox technique, with no tricks, apart from that of his own device, to photograph magic and mirages, but above all who has invented an atmosphere and architecture made from light and air demonstrating that the photographic picture, when it is poetic, is “purely subjective”.

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